Una lunga recinzione in ferro battuto circonda il Monte dei Cocci e adesso per entrare devi pagare. Non lo sapevo, e l’ultima volta che sono andato lì sotto, sono rimasto appeso a quelle sbarre come un cretino.
Hanno chiuso tutto.
Un tempo, quarant’anni fa, aveva ancora il carattere e le prerogative di un vero monte: non esisteva un cancello né una recinzione e non si pagava alcun biglietto per accedervi. Potevamo entrare e uscire quando ci pareva, scarpinavamo fino in cima. E volendo, a giugno, avremmo potuto anche piantare una tenda e dormirci.
Mi tocca considerarlo un monumento, anzi una cosa da fare a Roma, questa è la lingua di Tripadvisor, una cosa segnalata da una trentina di solerti recensori.
GIUGNO
A scrutini compiuti, quindi a giugno, mia madre ci portava nella sua scuola, che stava alla base del Monte, accanto al sedime del glorioso campo di Testaccio e poco distante dalle ceneri di Gramsci, chiudeva i registri nei classici armadietti da sala professori. Nel deserto dei corridoi ricordo la fragranza palestrizia, la sintesi unica di afrori da edificio scolastico: linoleum, gesso e sudore, che chiunque saprebbe riconoscere. Dopodiché passavamo al mercato e anche qui ricordo nitidamente l’odore del basilico che sbucava dalla busta coi pomodori nel sacchetto di carta.
Prima o dopo, salivamo lenti al Monte dei cocci per il sentiero a tornanti, e davamo un’occhiata dall’alto alla molle madre mediterranea, come la definisce il poeta e, con infantile mollezza, io e mio fratello probabilmente giocavamo a riconoscere i palazzi, l’ansa del Tevere, pezzi di colli veri e celebri ché il Monte dei cocci non è un colle dei sette. Ho ricordi poco precisi. Dalla vetta immagino cercassimo la direzione di casa guardando verso ovest, al massimo tiravamo due calci di punta a un coccio. Non v’era altro da fare. Forse lanciavamo annoiati qualche sasso dalla parte più ripida, allo stesso modo in cui nel medioevo i pochi romani che abitavano la città giocavano alla ruzzica de li porci: carretti di maiali vivi venivano spinti giù a forza dal Monte e poi blandamente cacciati.
Quando stavamo su, comparivano quasi dal nulla e all’improvviso degli uomini, il volto basso, attento e invisibile, che rovistavano a mani nude o con un bastone tra i cocci e tra i resti delle 53 milioni di anfore depositate nel corso dei secoli, e si portavano via, a casa intendo dire, si infilavano in tasca fondi o colli di anfora, non per rivenderli, per carità, piuttosto li trasformavano in posacenere, in ferma porte o ferma carte, in sassi da vaso, in niente. Non ricordo il loro volto, avrebbero potuto essere sagome, spettri anonimi, comunque non poeti celebri che risalivano dal cimitero degli inglesi. Instauravano coi cocci un nuovo rapporto d’uso: la restituzione d’una funzione operativa a un reperto, il collo d’anfora colmo di cicche, che non prevedeva né l’esibizione né la riproduzione. Alcuni mi pare sedessero poggiati alla croce che sta in cima al Monte. Guardavano la porzione di Roma che si apprezza da lassù. Fumavano e pensavano ai fatti propri, in silenzio. Gente che al limite si guardava intorno, oppure si guardava la punta delle scarpe e basta. Parlo di quarant’anni fa, non un secolo e non riesco a ricordare neanche un volto dei loro, una fisionomia, un modo di respirare.
LE FOTO DI PASOLINI
In rete si trovano meravigliosi scatti di Pasolini, scatti di Paolo Di Paolo in bianco e nero del 1960, fatti lassù, sul monte che si levava nudo, senza una pianta, come una testa pelata, in mezzo alla città silenziosa.
A differenza delle nostre ascese estive, quelle foto sono invernali e il cielo appare caliginoso e allucinato, si vede il Gazometro, in fondo si scorge la cupola di San Pietro e Paolo all’Eur e la sagoma del colosseo quadrato, poi la massa indistinta dei palazzoni di viale Marconi. Pasolini segue con gli occhi un ragazzetto che, preoccupato soltanto di uscire dallo scatto, fugge verso la quinta della foto, mentre il poeta rimane seduto sul basamento della croce con l’impermeabile chiaro tra le gambe. In un’altra foto Pasolini, lo sguardo assente, sta seduto su uno sperone di anfore. Non c’è roccia o terra, ogni superficie e viscera del Monte è costituita da strati su strati di anfore divenute scisto. Poco più avanti, al centro dello scatto, si staglia un uomo di spalle che guarda in terra, potrebbe trattarsi di un altro dei senza volto, uno che cerca una cosetta da portare a casa.
Il Monte dei cocci risulta un monumento sottovalutato, declassato a cosa da fare, eppure ne stiamo edificando un altro a Malagrotta, a Roma ovest. Altrettanto artificiale e stratificato non su milioni di anfore, ma su 80 milioni di metri cubi di monnezza: un Monte di buste plastica, coperto di teli di plastica, impermeabilizzato con l’argilla compatta e con la ghiaia per il drenaggio, e mi domando se mai un poeta, di quelli che non ce ne sono tanti nel mondo, che ne nascono tre o quattro soltanto dentro un secolo, un poeta che come tutti i poeti dovrebbe esser sacro, mi domando se mai un poeta deciderà di farsi fotografare sopra la montagna artificiale di Malagrotta, a capping completato, sulla vetta che nasconde ottanta milioni di metri cubi di cose, di scarti, di resti della nostra vita, di ossi di seppia della città di Roma. Peraltro un selfie da una piramide di rifiuti sarebbero perfetti per farsi traslare qui dentro.
SPAZIO ZERO
Alla base dell’antichissima discarica, che Papa Paolo II nel quattrocento aveva trasformato in un Golgota temporaneo per la via crucis del Venerdì Santo, lì dove oggi hanno orribilmente spostato il mercato, quand’ero ragazzino avevano allestito un teatro tenda che si chiamava Spazio Zero. Prima che cominciassero le vacanze, mamma, dopo la scuola, dopo il mercato e dopo il Monte de’ cocci, ci portava pure lì. Non andavamo a Spazio Zero perché avessero escogitato chissà quali attività per i ragazzini, del genere che adesso definiremmo animazioni, intrattenimento o laboratori. Mia madre credo seguisse degli studenti per una sorta di tardo doposcuola. Noi stavamo lì e pascolavamo, aspettavamo, perdevamo del tempo e poi tornavamo a casa con tutte e due le mani in tasca. Forse addirittura a piedi.
Di queste ascese e del nostro brucare a Spazio Zero non conservo neanche una fotografia. Per qualche istante, mentre ne scrivevo, ho persino dubitato che queste cose siano realmente accadute e che siano andate così come le ho scritte. Ho cercato conferme, documenti, e non ho trovato niente. Ho anche pensato che potrebbe trattarsi di un sogno, dopotutto sono fatti miei, forse irreali, monconi di antichi residui diurni di una vita fa e riemersi non si sa come. Per togliermi ogni dubbio ho aperto Google e digitato qualche chiave di ricerca: niente.
Pasolini al contrario è così vivo e così esattamente Pasolini. Merito del suo volto assente, del ragazzetto che furtivo esce di scena e del fantasma di spalle che cerca pezzi di anfora da portare a casa. In un’altra foto sulla cima di questa cosa che è a metà tra un’idea e un costrutto dell’uomo che è il Monte dei cocci, Pasolini tiene il busto orientato da una parte e la testa volta all’indietro, uno sguardo indecifrabile, potrebbe essere sia severo che sarcastico, sullo sfondo la croce, sotto il famoso cielo allucinato, ben più essenziale di quella visibile nella crocifissione del Vangelo secondo Matteo.
LE IDEE SU ROMA
Detesto gli itinerari e quelli che li propongono, come detesto le tesi su Roma e coloro che le espongono, su com’è e come funziona questa città. Bisognerebbe andare a casaccio oppure rimanere nel proprio quartiere. Ecco perché non possiedo né itinerari, né un’idea e tantomeno chiavi di lettura edificate su vasti strati di cliché. Solo i presuntuosi o gli sciocchi continuano a declamare a tutto spiano le loro opinioni attorno a questa città. E siccome si può essere intelligenti e presuntuosi o cretini e modesti, assistiamo a tutto un pullulare di spiegazioni, di idee ricevute sull’Urbe, per lo più sparse a piene mani qui dentro, dentro Internet e su Instagram. Ritengo sia meglio non averne di idee su Roma. Sarebbe un atto di sanità mentale.
Ma la verità, che andrebbe sussurrata a pena di essere appunto presi per pazzi, la verità semmai è che Roma si fa in continuazione un’idea precisa di voi, di noialtri e di me che scrivo ogni volta che la nomino e la nominiamo, e tuttavia non si perita di comunicarcela. Poi però concede a chiunque un dono inatteso: possiamo usarla come pretesto, possiamo costituire la città come alibi per parlar d’altro.
Si sa che certi regali vanno temuti così come chi li porta, è il caso allora di procedere con cautela: quando passi da un pretesto all’espressione di un’opinione sulla città, oppure scivoli da un alibi alla recita di un intero discorso su Roma, cadi in una vera trappola, un pericolo concretissimo. Tendiamo tutti a dimenticare che il rapporto d’uso tra la città e i cosiddetti cittadini romani risulta costantemente invertito: noialtri ci facciamo prendere dall’euforia, da entusiasmi immotivati quando si tratta di Roma. Ecco perché giova sempre indagare sullo stato d’animo degli abitanti quando fanno qualcosa. Perché pensiamo di usare e spesso siamo usati, pensiamo di sfruttare qualcosa e invece scivoliamo nella condizione di strumento, di utensile umano. Alcuni ci godono, ma questo è un altro discorso.
FOTOGRAFARE IL NON FAR NIENTE
Non so dire quale fosse il nostro stato d’animo, mio e di mio fratello intendo, quando salivamo sul Monte. Ipotizzo: curiosità la prima volta, poi curiosità attenuata, indifferenza, noia e fastidio, dopo un po’, alla fine, la finta fatica dei ragazzini. Quale che fosse l’indole con cui scarpinavamo, forse ci dicevamo qualcosa di poco significativo, forse non facevamo letteralmente nulla, in ogni caso oggi posso affermare con assoluta certezza che mancava dalla nostra testa l’idea di ogni rappresentazione di questo far niente. Calci ai sassi e ai cocci, l’osservazione di cose e di case, le attese e i silenzi, e la noia, sentimento di cui tuttavia non voglio parlare. Andavamo lì e facevamo una cosa oppure non facevamo nulla, ma non rappresentavamo né il fare né il non-fare. Era proprio assente la categoria. Ci mancava la forma del pensiero da cui potesse scaturire l’intenzione di dedicarsi alla cosiddetta rappresentazione di quanto avremmo visto e non fatto, allo stesso modo in cui mancava l’idea della rotazione terrestre prima della nascita di Copernico. Come tante altre volte nella storia, eravamo di fronte a un vuoto non riempito e non lo sapevamo.
Attenzione, esistevano i fotografi, penso agli scatti di Pasolini. Così come non mancava l’atto della condivisione successivo alla cosiddetta rappresentazione. Noi al tempo, noi non-fotografi, non pensavamo né all’una né all’altra. Ci si vedeva per condividere delle foto in precise occasioni oppure a partire da un desiderio ben espresso, secondo una liturgia, seppure minima.
Direbbe il mio amico Francesco Marino che non eravamo turisti di quel reale: scarpinare significava scarpinare, pascolare idem, e vedere era vedere, e basta. Non facevamo altro.
LE PREMESSE E IL RUMORE NERO
Se dubito della mia sanità mentale è perché mi sento vittima delle trappole di Roma e quindi anche di un’altra condizione, un altro atto del pensiero octroyé da parte della città, e cioè la premessa. La premessa e il pretesto costituiscono le classiche furbizie dell’Urbe. Mentre scrivo alzo lo sguardo oltre la cornice del computer e vedo i tetti, le solite antenne e i gabbiani, all’orizzonte i Simbruini e il famoso cielo di Roma. Che questo possa essere considerato solo un innocente panorama a me pare assurdo e inverosimile.
Se premetti e sei pretestuoso puoi evitare di spacciare idee ridicole su Roma, se invece cadi in trappola diventi uno dei tanti che sparge tesi sulla città. L’Urbe allestisce trappole in continuazione e, come molti di noi, anche io provo a scansarle e mi trasformo in un estensore recidivo di preamboli: ho così interiorizzato questa condizione che potrei camparne. Noialtri cives siamo tanto convinti delle premesse che ne spargiamo a piene mani, senza mai arrivare alle debite conseguenze.
Avrei voluto scrivere del rumore nero, un immane inguacchio di suoni che non vanno soltanto ascoltati, un inguacchio molto poco poetico a confronto col rumore bianco delilliano. Non sapevo proprio da che parte prenderlo questo benedetto rumore nero e sono finito a parlare di un quartiere di Roma. Del primo quartiere operaio della città che per fortuna non è il mio, altrimenti non potrei scriverne con leggerezza e con il giusto distacco.
Poi ho pensato che all’epoca il rumore era così differente che volendo scriverne non riesco a trovare altro metro, altri sensi per accedervi e altra prospettiva a voler essere preciso, che non sia il tempo, un tempo remoto. Se pensate infine che il rumore nero attenga all’udito siete proprio fuori strada.
IL SABOTAGGIO
Scriveva nel 1974 Saul Bellow che il Grande Rumore - due maiuscole - è la forza che «osteggia la disciplina simbolica della poesia», e aggiunge: «è il rumore, il vero nemico». E poi come fosse cosa poco, inserisce anche un passaggio di Nadezda (non Osip) Mandeljštam che, a proposito dei poeti in Unione Sovietica, scriveva: «dubito che in qualsiasi altro luogo vi siano persone più assordate di loro dal frastuono della vita: uno dopo l'altro, i poeti sono piombati nel silenzio, perché non riuscivano più a sentire neppure la loro stessa voce. Il rumore ha soffocato il pensiero e, per diversi milioni di persone, anche la coscienza».
Mentre ricopio queste parole, c’è qualcuno che mi accusa per l’ennesima volta di aver silenziato la mia coscienza perché non ho fatto sufficiente rumore qui dentro, su Instagram, intendo, ma non ricordo per quale buona causa. Allora m’è tornato in mento un racconto che volevo scrivere e che come sempre non ho scritto, in cui i miei tre nipoti più piccoli sono divenuti adulti in un mondo in cui l’AI svolge ogni compito.
I progettisti dei modelli di linguaggio di grandi dimensioni hanno esaurito le parole prodotte nei secoli dall’umanità, le parole che servono ad addestrare le macchine. L’AI ha letto tutto, ogni minimo vagito prodotto dal più insignificante degli scriba, comprese queste parole che state scorrendo sul telefono. Più legge più la macchina indemoniata ha bisogno di leggere, solo così fa le cose e intrattiene, lavora e tiene a bada tutti gli altri. Le nuove parole vanno scritte da qualcuno che abbia un corpo: quelle prodotte dalle altre macchine sono perfette e tuttavia poco utili perché inumane.
In questo mondo, tutti i lavori sono svolti da robot animati dall’AI. L’umanità impallidita, come in Ready Player One, vegeta a casa col visore incollato agli occhi a ingozzarsi di rumore nero. A pochi umani, qualche decina di milioni sul pianeta, resta un ingrato privilegio: scrivere tutto il giorno. Sono gli ultimi uomini e donne ad avere quello che un tempo definivamo lavoro: scrivono in maniera incessante, senza pause e in tutte le lingue, tutto il giorno, 24 ore su 24, 365 giorni l’anno. Cedono alle reti neurali pensieri, ricordi, atti d’accusa, ricette, fantasie e perversioni, storie e notizie, idee, premesse e visioni, miliardi di parole al secondo. Sfamano in tempo reale macchine che altrimenti collasserebbero per assenza di nutrimento. Una continua trasfusione di linguaggio che rende l’AI sempre più intelligente e più capace di creare rumore nero per i miliardi che stanno a casa, in letargo, col visore impiantato sul nervo ottico. Dopo anni così, anni di fatica e alienazione, i miei nipoti decidono che il tempo del lavoro è concluso. Basta regalare parole a niente e nessuno. È giunto il tempo di sabotare la macchina attraverso il sabotaggio della lingua: scriveranno soltanto le parole dei matti. Frasi febbricitanti, dalla sintassi perfetta e ineccepibile, ma completamente vuote di significato e prive di senso, ecco le parole folli che daranno in pasto alla macchina. Non scriveranno mai più una premessa che porti a una qualche conseguenze. Ogni preambolo rimarrà sempre tale e non preluderà mai a nulla. Riempiranno la macchina di illogica e di assurdità, e il mondo di associazioni così libere che l’unica cosa che terrà insieme le frasi sarà la grammatica. Per il resto niente.
Scriveranno soltanto finali incomprensibili e aperti: finali che ricominciano da capo. Scriveranno i sogni e gli incubi, le ossessioni e i disturbi. Gli imbuti della psiche manderanno le reti neurali in bambola. E l’AI smetterà di essere tale e crollerà su se stessa, avvitandosi per manifesta demenza.
A CENA
Adesso ho perso il filo e non ricordo perché io abbia cominciato a parlare di Testaccio, quale che sia la ragione, ricordo una sera, sempre in zona, in cui ci portarono fuori di casa molto tardi, saranno state le undici. Cosa per noi inusuale. Andammo in una trattoria che aveva aperto così presto solo per noi, ci avevano fatto un favore. Stava dietro ai Mercati generali che all’epoca funzionavano a pieno ritmo. Non ricordo granché, se non la sorpresa per l’uscita e la cena fuori a orari inimmaginabili. Ritengo fosse la notte tra un venerdì e un sabato e che papà conoscesse per vie traverse uno dei proprietari. Di solito la trattoria apriva molto tardi. Non ricordo nulla di cosa abbiamo mangiato, né su cosa io fondi la memoria di quella sera. Di nuovo ho cercato su Google, su Tripadvisor e sui cosiddetti social network. Non compare nulla: sembra che questa trattoria non sia mai esistita. Eppure sono certo di una sola cosa che, come certi club, avesse un ingresso visibile dall’esterno, aprisse molto tardi e fosse riservata a una congrega di pochi, come uno speakeasy o quella scena del film di Kubrick.
Non ricordo ma riesco a vedere i camionisti di fuori Roma che scaricano le merci, poi altri trasportatori che smistano frutta e verdura nei mercati rionali, non bussano, non vestono tuniche che coprono il volto, non sussurrano parole d’ordine. Entrano verso le 2, siedono e mangiano concentrati. Alle 3 le comande ripetute a voce, tra sala e cucina, diventano piatti e se non fosse notte fonda sembrerebbe ora di pranzo. Nella trattoria seguono un fuso orario alternativo e arbitrario rispetto alla città e ai suoi ritmi, alla sua ciclotimia. I facchini mangiano per ultimi dopo aver lavorato tutta la notte. Alle 6 di mattina, ne vedo un paio che parlano sfiniti dell’AS Roma, altri due alle prese con un filetto di baccalà, lo sguardo perduto dietro alle lusinghe della fantasia, il braccio poggiato sul tavolo e la mano sotto al mento, un altro sfoglia il Messaggero in silenzio e nel frattempo si pulisce i denti con uno stecchino. Sulla porta c’è uno che saluta tutti: dice che fa il doppio lavoro, bidello in una scuola media, e tra poco attacca di là. Anche i camerieri della trattoria vivono lungo lo stesso fuso orario dei lavoratori dei Mercati. Sparecchiano, puliscono i tavoli e tirano su le sedie. Alle 8, logorati, arrivano a casa, abbassano le persiane e si mettono a dormire.
LA STANZA
Quando penso al rumore, vedo - non sento - vedo un gigantesco parallelepipedo su un monte, tipo l’Arca sull’Ararat, un solido che ricorda sia una stanza che una casa intera. Uno spazio chiuso che certe volte pare luminoso, altre avvolto nelle tenebre e sebbene non abbia né porte né finestre è aperto sul mondo, e sebbene sia ermetico vi si può entrare quando si vuole. Il difficile è uscirne. Difficile? Forse impossibile. Un luogo densamente abitato in cui cammino da solo e vedo le cose da solo, vedo le cose col telefono. Vedo le cose e le persone. Vedo me stesso e noi tutti, a essere onesto. Decine, centinaia di persone con lo smartphone in mano. Questi camminanti, benandanti o malandanti, a seconda della predisposizione morale vorrei dire, vagolano senza sosta in una specie di eterna danza circolare dentro questa stanza. Alcuni marciano e vedono col telefono un pezzo di parete, altri una finestra, il battiscopa, mentre, forse l’avrete letto, io spesso cammino e cerco un pezzo di cielo e le nuvole. Altri si fermano nell’incessante movimento e vedono il proprio viso, i piedi o ciò che stanno mangiando.
Qualche giorno fa mi trovavo in Puglia, nella piazza di un piccolo paese e contestualmente stavo dentro la stanza, funziona sempre così, ero lì ad ascoltare un gruppo musicale che suonava tributi a un grande poeta cantante emiliano. Lungo tutto il concerto, una donna davanti a me, la mia età, capelli lunghi e biondi, occhiali neri dalla montatura leggera e un lungo vestito, anch’esso nero, una donna appassionata e partecipe, ché conosceva ogni singolo pezzo del repertorio, per tutto il tempo, dicevo, ha visto e ascoltato puntando il telefono verso il palco: l’ha tenuto in verticale per almeno un paio d’ore, affinché nella stanza, nel parallelepipedo, fosse tutto chiaro. Non stupisce più nessuno questa postura: sappiamo bene cosa sia la cosiddetta normalità nella stanza. La visione compiuta si realizza attraverso quella che nel parallelepipedo definiamo condivisione, il gesto che si produce con uno sfiorar di pollice e mostra i suoi effetti qui dentro. Funziona così: vedo qualcosa e corro subito a mettere l’immagine di ciò che ho visto su una delle pareti della stanza. In realtà non la metto io fino in fondo, piuttosto direi che compare: qualcuno, una specie di mano invisibile, la prende e l’appende con un mio minimo contributo. Tutto avviene senza particolari attriti. Anzi, senza alcun attrito o frizione. E mentre ne parlo, mi domando quale sia l’esatto sentimento di chi vede e di chi appende.
La donna che vedeva e ascoltava il concerto sembrava commossa e allo stesso tempo ostinata nell’orientare il telefono verso il palco. Alle pareti della casa una marea di fogli volanti, un flusso interminabile di immagini riempiono il parallelepipedo, vengono fissate con puntine o piccoli chiodi sulle pareti umide, tanto cariche di umidità che si sbriciolano ogni volta che un foglio viene appeso. Dentro si respira un diffuso odore di muffa, alcuni fogli stanno su a lungo mentre altri non sopravvivono neanche un secondo. Ora che ci penso non sento mai uno che sbatta un chiodo col martello, né ho mai visto uno che spingesse col pollice una puntina su un foglio. Siamo sommersi di immagini che letteralmente volano quasi subito dalla parete. Colpa dell’umidità, ritengo. Una volta appesi, il muro si sbriciola e i fogli vengono via ondeggiando. Che li abbia visti uno soltanto di noi, tanti, pochi, dieci o milioni o tutti quanti è difficile a dirsi. E in fondo è anche irrilevante. Pure se non li ha visti nessuno, i fogli scivolati rimangono dentro la costruzione, sul pavimento della stanza. Non volendo li calpesto: strati su strati di fogli, come le anfore per il Monte, e non faccio caso a ciò che altri hanno rappresentato sul foglio. Ogni tanto mi fermo, mentre tutti intorno a me continuano a camminare, mi blocco davanti alla parete e prendo il telefono e inquadro per vedere meglio. A volte capita di litigare per via delle immagini, spesso sento un altro bisogno, quello di dire la mia.
Non accade mai che diciamo la nostra e basta, senza un’immagine che induca la reazione: c’è sempre un foglio appeso alla parete che stimola un commento. Ci fermiamo lì davanti e ci arrabbiamo di solito. A volte sorridiamo oppure ci commuoviamo, a volte lasciamo due righe sul foglio appeso, pure se sappiamo che dopo poco scivolerà in terra.
IL RUMORE NERO
So che ora sono seduto in piazza della Libertà, di fronte alla Loggia di San Giovanni, sotto al Castello di Udine, fino a pochi istanti fa stavo provando a descrivere la stanza qui dentro. Ho da poco sollevato la testa dal computer e notato un ragazzo che tentava di vedere col telefono i due mori che battono le ore su una campana.
Una donna si è avvicinata: ha preso una delle sedie in plastica nera che qualcuno aveva ordinato in file lì accanto, e l’ha spostata. La trascina con una mano e intanto continua a parlare con un’altra donna, al telefono.
Ora devo interrompermi e non so dire se io stia davvero ascoltando questa conversazione, parlo di adesso, del me che scrive questa newsletter, non capisco se stia realmente sentendo ciò che sale dallo smartphone della signora che parla qui accanto, in vivavoce, oppure se questa conversazione abbia allertato sensi differenti oltre all’udito. Non credo avesse in mente un atto deliberato, contro di me intendo. Si è semplicemente avvicinata, indifferente alle conseguenze di ogni sua singola azione. In fondo stava solo parlando con un’altra donna.
Vincenzo non può venire in vacanza, ha una sola settimana di ferie, che deve fare? organizzatevi voi, avete rotto le scatole, ha detto; quando si tratta di fare le vacanze insieme è un macello; è l’unica settimana che ha e allora chi c’è c’è; sono quattro realtà diverse: quattro persone; tu quando sei andata in Cina hai visto l’esercito di terracotta? io ho fatto solo Shangai, oggi mia figlia mi ha mandato le foto e mi ha detto perché non hai messo like? No, gli amici del mare stanno organizzando per andare in Giappone, sono quattromila euro a persona, almeno, ho sentito Roberto che non sentivo da una vita, ci vedevamo ad Agropoli, dice che va in Nepal; l’ultima volta si era offesa perché non avevo messo like alle sue foto e adesso di nuovo, le ho detto certo mamma, te le metto, ora ti giro l’audio che dice del like; l’anno scorso?
Ha interrotto la conversazione e ha riascoltato l’audio della figlia arrabbiata, per sincerarsi che fosse quello giusto: l’audio in cui la rimproverava perché non aveva messo like alle foto. E poi l’ha mandato alla sua interlocutrice. Io ho sentito tutto. Dopodiché hanno ripreso la loro conversazione e io ho di nuovo subìto con tutto il corpo le loro parole. E ora che ne scrivo in treno, sarà passata un’ora, una famiglia di Sloveni, due posti avanti, conversa e ridacchia. Hanno una bambina che gnagna in continuazione e inserisce ogni tanto una singola parola in italiano nei suoni che la sua bocca emette. I genitori ridono e la vedono col telefono, sia il padre che la madre, due telefoni, e ciascuno vede la bambina che dice: finito, ho finito. Loro ridono e la vedono, e poi scattano foto e fanno video. Quando affermo che subisco con tutto il corpo non è un modo di dire: la donna sotto al loggiato era alle mie spalle, l’ustione leggera e diffusa delle sue parole ha colpito ogni singolo poro della mia epidermide. Poi ho sentito in bocca il suo modo di parlare, come un sapore: non ho identificato l’accento, forse abruzzese o delle terre di lavoro, tipo Cassino, o ancora molisano.
Ho smesso di parlare della stanza perché i miei polpastrelli e le dita hanno preso a stenografare le cose che le due donne si dicevano. Non avevo alcuna difesa mentre loro parlavano, potevo solo trascrivere. Subivo ogni frase, ogni repentino cambio di argomento e di tono, ogni singolo mutamento implicito di contesto, slittamenti di significati che per loro risultano ovvi e densi di sottintesi, e che per me rappresentano soltanto rumore.
Stiamo organizzando un viaggio più importante in Marocco, si potrebbe fare a marzo, sennò fa troppo caldo; anche adesso fa caldo; che poi quest’anno stanno tutti andando in Giappone, a me non mi attira; è la cucina dici? mangiano gli organi interni di bestie e volatili, rigaglie, fette di fegato fritte con briciole di pane, uova di merluzzo fritte; la vera cucina giapponese mica il sushi; non si capisce niente.
Vorrei avere il coraggio di girarmi e farle capire che la deve smettere. Vorrei usare la vista e i miei occhi come un corpo contundente. Invece sollevo il naso perché mi sembra che tutte queste parole abbiano mutato l’odore di questo luogo, qui sotto il loggiato. Siamo all’aperto, ma la donna ha scelto il profumo senza curarsi della quantità. Ha esagerato. O forse è colpa delle parole. Chissà se nella memoria rimarrà appiccicata questa fragranza, come l’odore palestrizio della scuola di mamma. Adesso mi volto e gli schiaffo il telefono in faccia e la fotografo, così metto al sicuro il ricordo, il fastidio e la sopraffazione. Ma l’impulso dura un istante. Non ne ho proprio la forza: abbandono subito questa ipotesi e spero che il profumo e le banalità che si stanno dicendo scivolino via. Che non resti appiccicato nulla sulle mie dita, nulla di impresso sulla mia retina, dentro al naso e nelle papille gustative.
Sono stata una settimana a Minorca, carino il mare, però il viaggio mi piace se vedi realtà diverse, e la vacanza è un’altra cosa; guarda ieri c’era un mare a Lavinio che non ho mai visto così bello, giugno è il periodo migliore, pure gli altri giorni era pulita: uno spettacolo, stavo sempre a mollo; eh lo so, mia figlia m'ha detto: mamma sono proprio emozionata, mi ha detto stamattina da Xi’an, sta ancora là, torna domenica; certo col fuso orario; infatti ho detto: mamma non si prendono giorni di ferie, torna e vai a lavoro; mi ricordo, c’era questa, una nobile, che si prendeva una settimana di riposo in albergo, sì un albergo della sua della sua stessa città, dopo aver fatto due settimane di villeggiatura in collina, dice per riposarsi.
Sarei stato contento di essere uno che si alza deciso e solleva il dito indice e intima a una sconosciuta qualsiasi che s’è venuta a sedere accanto a me: si sposti più in là, non mi interessa quel che ha da dirsi con l’idiota della sua amica.
Si allontani!
Vorrei essere capace di dirlo a lei, alla donna sotto il loggiato e di intimarlo a quello sul treno nel posto di fronte, lì dove scrivo adesso queste righe, che vede una Storia col volume alto, e poi dirlo alla famiglia slovena e alla loro bambina, al portiere di giorno dell’hotel di Trieste, al capotreno che chiama in vivavoce il collega per i soliti problemi.
Chi possiede questa forza?
Non io. Che altro potevo fare?
Alla fine ho stenografato per rappresaglia.
Adesso getto addosso alla donna le sue stesse parole: voglio sbattergliele in faccia. Il corpo contundente non è la mia vista, ma questa trascrizione: l’esatta trascrizione delle loro parole. Un giorno arriveremo tutti a trascrivere in diretta il rumore nero degli altri. Aggiungere rumore nero ad altro rumore nero. Sopraffare il prossimo con altra e inesauribile sopraffazione.
L’ILLUSIONE DELLA CONDIVISIONE
Spesso la condivisione produce illusioni negli abitanti della stanza. Quasi tutti pensano che condividere e appendere qualcosa dentro la stanza equivalga a condividerlo fuori della stanza. Il pavimento della casa è un pavimento di fogli e immagini, come pure le pareti che si sbriciolano. Ogni tanto vedo col telefono un foglio appeso che mi piace e allora decido di appenderlo di nuovo. Mi ritrovo con un mio foglio sul quale c’è l’immagine di un altro foglio, fatto da un altro, conosciuto o sconosciuto non ha importanza. Capita spesso: nel parallelepipedo siamo sommersi di fogli che raffigurano altri fogli e altri fogli ancora. E se poco dopo stanno tutti in terra, non fa niente. A me dispiace perché tanta gente mette molta energia nel comporre i propri bei fogli, si industria a vedere le cose qui dentro, eppure si tratta soltanto di fogli e si sa che la parete è friabile. É un fatto naturale. Dentro la casa condividere costituisce un comportamento doveroso ma non obbligatorio.
I camminanti vedono le cose, le persone, vedono per lo più se stesse e sentono subito il bisogno di condividere. Difficile, anzi impossibile che aprano il telefono dentro la stanza, vedano qualcosa e decidano di tenere il foglio in bozze. Che lo mettano da parte per il cosiddetto futuro, per un giorno in cui saranno certi della verità di ciò che hanno visto.
Come si fa?
Ancora più impossibile poi che uno mantenga in bozze tutto quanto ha visto negli anni. Che produca centinaia e migliaia di immagini e decida di non appenderle. Non è prevista la possibilità che il più talentuoso dei camminanti consegni a un amico, all’utente @max_brod, tutte le proprie immagini, gli dia un pacco di fogli alto come una casa. E che poco prima di morire di polmonite gli chieda: salva solo cinque o sei fogli, gli altri devono essere bruciati, e ti prego di farlo il prima possibile. Butta tutto. Che nessuno le veda, che nessuno le veda mai più. Sì quelle immagini le ho fatte io, ero felice quando vedevo così, ridevo quando te ne parlavo, ma adesso cancella ogni cosa. Il movimento incessante dentro la casa si produce per tante ragioni, ciascuno avrà le proprie. Lo so che è la dopamina prodotta dal mio cervello. Ne voglio sempre più di dopamina, peraltro questo fatto riguarda anche voi, ma io voglio proprio ubriacarmene.
Ho pensato che dovrei parlare con mamma: adesso ha il Parkinson, e ciò che il suo cervello non produce a sufficienza è proprio la dopamina. Mia madre dentro la stanza non mette piede perché la sua malattia produce rigidezza negli arti e lei si muove con grande difficoltà, non potrebbe camminare per ore e ore come fanno tutti qui dentro. Tra le altre cose, oltre al movimento, negli ultimi tempi ha anche problemi a tenere gli occhi aperti, si tratta di un effetto della sua patologia. Con un grande sforzo da chiusi riesce a socchiuderli. E con gli occhi a fessura legge quel che può, per il resto preferisce vedere ascoltando. Non è cieca. E comunque, nonostante cammini a fatica e veda a fatica, quando socchiude gli occhi mi stupisce per quanto veda lontano. Tra le tante lamentazioni, sacrosante, ogni tanto se n’esce con affermazioni lapidarie, oracolari. Vere e proprie sentenze. Proprie di tutte le madri oltre una certa età, mi direte.
SOCCHIUDERE GLI OCCHI
Dentro la casa voialtri vi ingozzate di dopamina, mi dice, state sempre lì a vedere col telefono, appendete tutti questi fogli, e rischiate di avere una prospettiva ravvicinata di tutte le cose. Gli occhi si stancano. Correte il pericolo che tutti i sensi vengano allertati dalla vista, così ha detto una volta e dopo un po’ ha aggiunto indicandomi con una penna: non ti accorgi del resto. E finisci per crederci.
A cosa credo?
Ha aspettato a rispondere, prima ha bevuto un sorso d’acqua dalla cannuccia.
Tutti quanti ci credete.
A quel punto ha mosso i meccanismi della poltrona, ha chiesto un cuscino per sistemarsi meglio, pensavo avesse concluso lì. Che volesse spararsi YouTube, come dice lei.
Alla vista credete, e soprattutto credete alla vista qui dentro, alle cose sui fogli, alle immagini sulle pareti.
Volevo capire dove intendesse andare a parare. Ha tenuto gli occhi socchiusi.
Qui dentro è la superficie della superficie. Piuttosto complicato farci i conti.
Mamma ha tirato su con la cannuccia, l’acqua era finita e io ho pensato alla casa. Solo pareti ammuffite ma lisce: mancano mobili, sporgenze, maioliche rotte, spigoli.
Credi di vedere e invece vieni guardato, ha detto.
Quando prendi il telefono, quando vedi il muro e dalla finestra vedi le nuvole, anche se non fai niente e ti limiti a vedere le cose degli altri, i loro fogli, le loro immagini, pure se davvero non fai niente, la casa, ti guarda, il parallelepipedo ti guarda.
Le ho chiesto, se di questi tempi, non sia un dono la mancanza di dopamina.
Ha detto di no. Che preferirebbe che il suo cervello la producesse e i suoi occhi si sono richiusi.
Socchiudiamo gli occhi quando cerchiamo di mettere a fuoco qualcosa di molto distante. Dodici anni fa conobbi Claudia, un’amica di mio cognato. La ricordo molto colta e molto attenta a ogni creatura vivente, comprese le zanzare giganti. Ricordo questo e il fatto che voleva che tutti vedessimo L’anno scorso a Marienbad, io per fortuna avevo già dato. Claudia insegna almeno un paio di lingue orientali, compreso il siriaco, e ne conosce una decina tra vive e morte. Ho colto l’occasione per chiederle conferma di una cosa di cui conservavo e conservo tuttora una memoria flebile. Un altro residuo diurno remoto per cui non posso cercare alcuna conferma su Google e che aveva a che fare con certe meravigliose lezioni di greco di Carla Margaritora al Virgilio di Roma.
Per il dizionario etimologico greco di Frisk, il termine che aveva a che fare con il chiudere gli occhi è μυστικός (mystikós): deriva da μύστης (mystes), che letteralmente significa “colui che chiude gli occhi” (a sua volta derivato dal verbo μύω, myo, ‘chiudo, serro’) e si riferisce a quelli che partecipavano ai misteri eleusini.
TIPI UMANI E INUMANI NELLA CASA
Alcuni di noi, dentro la stanza, poggiano il telefono su un qualche astile e si riprendono mentre gesticolano e parlano. Si vedono da sé. Più gesticolano più hanno successo. Ne vedo uno che parla senza gesticolare e si riprende ugualmente. Vedo una ragazza che gira in tondo e chiacchiera fissando un punto mediano tra la fotocamera anteriore e una ring light portatile montata su un astile e poi sullo smartphone. Sembra guardi il terzo occhio del telefono, quel punto rosso che gli indiani disegnano sulla fronte. I gesticolanti spiegano molto: ci dicono sempre da che parte stare, cosa pensare, qui dentro e nella vita. Mi rendo conto che sono pedinati da un gruppo significativo di altri camminanti sui quali spandono la loro influenza. Più sei pedinato, più sei influente, non ha importanza cosa vedi sul telefono e condividi, conta essere pedinati. Si capisce che qualcuno abbia stabilito una precisa gerarchia: dentro il parallelepipedo alcuni sono pedinati da milioni di umani e sono i più influenti. Alcuni influenti hanno mutato il loro nome in creatori. Creano e influenzano: cosa creino è difficile a dirsi, non mi pare che vedere equivalga a creare, ma la casa possiede un linguaggio tutto suo. Quasi tutti credono che ogni minima pulsione su quei fogli equivalga a un’espressione, con una presunta forma.
Nella casa vedo uno che alza la testa un istante e subito la riabbassa, come punto da un rimorso e come se il reale di qui dentro, dentro il telefono voglio dire, sia non solo più magnetico - che questo è ovvio e lo sappiamo tutti - ma sia anche più reale dell’altro. In fondo la performance del tizio che si inquadra e gesticola posso vederla e rivederla all’infinito. Posso tornare indietro e ascoltarla parola per parola, finché non sono convinto di ogni singola parola. Finché mi va, finché non crepo.
Tra coloro che marciano in cerchio, c’è un gruppo, piuttosto numeroso, che vede e basta. Vede sul telefono con grande partecipazione, con assiduità, ed è chiaro che attribuisca valore a quanto accade qui dentro, soprattutto alle parole dei gesticolanti pedinati e dunque influenti. Se chiedessi loro, risponderebbero che è una questione di ispirazione. Ho scoperto che esistono dei camminanti arrivati per ultimi, i quali reagiscono bene o malissimo alle immagini che vedono. Condividono e appendono i fogli alla parete, ne fanno cadere molti in terra. Sembrano infaticabili, forse perché non hanno volto né corpo, non possiedono memoria ed esperienza, ma sono intelligenti e abitano come noialtri la stanza con intenti precisi e stabiliti da altri.
LA MAPPA
Non esiste una mappa della stanza, della casa, né un atlante del parallelepipedo. Sebbene sia un territorio vastissimo, nessuno saprebbe delinearne i confini. Eppure qualcuno possiede il catasto e dunque i dati, conosce le particelle e la scala.
L’ODONTO-GIPSOMACHIA
Tanti anni fa andavamo da Pierino al Gazometro. Un piccolo bugigattolo, dove Pierino appunto, con l’aiuto della moglie, serviva pietanze semplici e clamorose: pasta ai broccoli, al sugo di involtini, patate al forno. Era frequentato dagli operai dell’Italgas. Ai tempi, trent’anni fa direi, andavamo lì, io e Valeria con mio fratello e Mauro. Ricordo che la moglie di Pierino, povera, soffriva anche lei di Parkinson eppure seguiva i tavoli, sparecchiava e serviva; mentre lui, minuto, sorridente, da dietro vegliava. In primavera ed estate si mangiava fuori, addossati al muro su un paio di tavoli che seguivano l’andamento a dorso di mulo del marciapiede.
In quei pranzi del sabato, mio fratello che era andato alla stessa scuola dove aveva insegnato mamma, raccontava degli assalti di fine anno del confinante istituto tecnico odontoiatrico che stava lì accanto, ma su via Galvani.
Di nuovo il mese di giugno: gli studenti delle superiori attaccavano brutalmente i ragazzini delle medie.
Niente gavettoni, ricordava mio fratello.
Dall’alto, dalle finestre degli ultimi piani, dopo grida feroci di battaglia, partiva un fitto lancio di modelli di arcate dentarie in gesso, di finte dentiere bianche e protesi che i più grandi tiravano con furia, tentando di colpire i più piccoli, i quali fuggivano alla disperata dal cortile cercando di evitare l’onta della sconfitta nell’odonto-gipsomachia estiva: una macchia bianca sul grembiule blu.
A fine giornata restava sul terreno un tappeto di dentiere, di modelli odontoiatrici spaccati, di arcate di sconosciuti utilizzati come armi improprie, come proiettili. A battaglia compiuta, i bidelli sacramentando, con le vecchie scope di saggina e qualche pala, riempivano sacchi neri di munizioni.
Neanche mio fratello conserva fotografie di questi scontri che pare fossero celebri nelle due scuole. Mi chiedo se pure il suo sia un ricordo reale, oppure una creazione, un residuo diurno poggiato su fantasie in fondo plausibili, qualcuno direbbe realistiche.
L’istituto sta ancora lì e sul sito c’è scritto: arti ausiliarie delle professioni sanitarie, Odontotecnico.
Mia madre sostiene addirittura che in un paio d’occasioni, mio fratello avesse riportato a casa alcune protesi in gesso.
Tipo spoglie del nemico: due dentiere bianche.
Ho cercato in rete, su Google, e non ho trovato nulla. Forse non è mai esistita questa battaglia, magari è una specie di mito edificato su pezzi di racconti poi uniti da un qualche cantore romano cieco. Oppure, e sarebbe un disastro, è tutto vero. Con grande senso di colpa, e specifico senso dell’assenza di attriti - a parte quelli relativi ai conti con la cosiddetta memoria -, mi rendo conto che anche queste parole contribuiranno a innalzare di una frazione di decibel il rumore nero.
DA PIERINO AL GAZOMETRO
Con mio grande sollievo e dopo aver cercato a lungo, ho ripescato da una pagina Facebook alcune fotografie dedicate alla trattoria di Pierino al Gazometro. Sono immagini malfatte, storte e alcune sfocate, di quando la casa, il parallelepipedo, la stanza insomma, stava sorgendo. La cura delle immagini era quella che era. Per fortuna hanno resistito, sono scivolate dalla parete, ma scartabellando le ho trovate. Qualcuno ha reagito alle immagini e le ha commentate, un paio di camminanti le hanno nuovamente appese al muro. Chissà per quale ragione, forse perché sapevano che altrimenti avremmo perduto la memoria di quei piatti, di quel luogo, del sorriso di Pierino e del tenero tremolio di sua moglie. Non resta altro da fare che denunciarmi: ho aggiunto il Monte dei Cocci, Spazio Zero, la battaglia delle dentiere al rumore nero, adesso prendo questo foglio e lo fisso alla parete con un paio di puntine, sapendo che anch’esso cadrà svolazzando in terra. Molti lo calpesteranno, me compreso.